Versi in libertà: le donne di Kabul

Ben ritrovati lettori di LiveMedia24, in questa rubrica parlerò delle donne afghane, grazie anche al vostro contributo. Nella prossima rubrica parlerò dell’autunno: inviatemi le vostre poesie, racconti,foto e disegni.

La prima prima poesia  l’ho scritta lo scorso agosto. Il landai è della poetessa e pittrice Silvia Favaretto.

 

LE DONNE DI KABUL

Ti scrivo dal balcone

Una canzone con il sole

Resto qua un pochino per assaporare il rosmarino

Guardo oltre il paesaggio

Vedo la tua libertà di donna

Oltre ogni misura

Nel rispetto dei ruoli e delle considerazioni

Mi piace vederti volare tra le nuvole di Kabul

Dove il burca è rimasto un ricordo

Dove la supremazia talebana ha fallito

Si lo so sto sognando

Una situazione surreale dove vedo pure il mare

Ma se il mondo va all’ingiù forse qualche colpa c’è l’avrai pure tu diceva il saggio.

Negli orrori certificati la storia non fa la memoria ma si ripresenta in forme diverse.

Dove sul balcone non ci sono più le briciole per gli uccellini, dove non si può più esporsi laggiù.

Sono tutti a testa in giù da anni non da adesso.

Le donne di Kabul sono il manifesto di qualcosa andato perso dove l’intera società diplomatica e non ha fallito.

Il sogno continua a vaccillare in quel balcone italiano dove il burca passa ahimè ancora piano piano.

 

Landai di Silvia Favaretto

 

Tradotto: cercano di cancellarmi ma… persino la sabbia del deserto grida il mio nome… Il Landai significa “piccolo serpente velenoso”in lingua Pashto l’etnia largamente più rappresentata dell’Afghanistan, si tratta di poesie popolari, composte da due versi.

La seconda poesia l’ho scritta a inizio di settembre vedendo l’inaudita violenza a Kabul. Seguirà anche il video, interpretato dalle donne.

 

LE CAMPANE SORDE

Le campane erano sorde

Al suono della disperazione

Donne aggredite a tradimento

Donne a terra a Kabul

In una situazione surreale

Dove disobbedire non è più normale

I subdoli soldati passano sul terreno coperti dall’ ignoranza voluta dai potenti.

Non si fermano davanti a nessuno.

Il corridoio è rimasto l’unica soluzione di uscita

Da una verità scomoda e imbarazzante da un nemico da attaccare

Le più forti si alzano in piedi e proclamano la loro libertà

La campana suona sorda

Non solo nel medio oriente ma anche in occidente.

Dove le violenze di genere ci sono ogni giorno con gli alberi parlanti che non riescono a comunicare una inaudita violenza verso le donne.

Sono esili,  resilienti e danno la linfa ai nostri momenti.

Danno la vita e abbracciano  il mare.

Nella solitudine

Nella disperazione

Delle campane sorde

 

Ringrazio di cuore tutte le donne che hanno contribuito al video; Marta Nardi, Arianna Rugger, Silvia Favaretto per l’interpretazione, Thamina, Raja e Tina per le foto.

 

Foto di Dhyhana Stella Tarlindano che è anche la foto di copertina che ringrazio.

 

La terza poesia, l’ho scritta questa settimana, il secondo Landai è sempre di Silvia Favaretto

 

LA SABBIA SI ALZA

La sabbia si alza

La tempesta è in arrivo

Le donne azzerate a KABUL

Da una legge talebana che sovrasta ogni diritto

La legge del più forte

Passa sopra le ambasciate vuote

I burca volano in silenzio al mercato

I bambini sono disorientati

Vedono scene di violenza ogni giorno

Verso le mamme, le nonne e le zie.

Il vento si alza

La protesta delle donne imperversa

In una solitudine abbissale

Nel silenzio comunicativo

Il burca a terra nelle strade principali

Privo di respiro rimane nella sabbia

In attesa di una vera tempesta

Che nelle nuvole fermerà

La sabbia degli orrori talebani

 

Landai di Silvia Favaretto

 

Significato: Se non puoi salvarti da sola, saremo venti cento e mille per te. Tutte le mie cicatrici gridano il tuo nome da ogni specchio

 

Ed infine il contributo di Silvia Morrison,  sulla violenza di genere:

 

Cara donna,

Sei  bella e intelligente,

Vorresti essere istruita , e lavorare,

Come tutte le donne per  poterti realizzare.

Pensi alla speranza e alla libertà , e

a cio ” che non hai: serenità.

Lui ti ha sposato

E il suo nome ti ha dato

Eppure ,tu ci sei , ma anonima resterai ,

Anche quando morirai .

Vuole possederti ,

Ma lui sa che può averti,

E se ti rifiuterai ,

Le sue mani addosso ti ritroverai.

Tu non devi giustificarlo ,

anche se tu sesso con lui non vuoi farlo

Si e pur sempre tuo marito,

Ma lui se tu non vuoi, non deve alzar nessun dito.

Ti chiedi se il tuo percorso alla liberta’,

Mai arriverà …

E  sai che il tuo destino forse è gia segnato

E per questo il tuo futuro ti è stato strappato!!

 

Le donne in nero, contro le guerre e la violenza sulle donne

 

La scrittrice Thamina Yhasmin Shoshi e Alice Franceschini condividono un racconto dedicato a una mamma bengalese recentemente scomparsa per una malattia.

 

Mai più senza mio figlio

 

Mio adorato Proloy,

Ieri ho avuto l’ennesimo malore, e sento che non ce ne saranno altri. Attorno a me vedo

solo le anonime pareti giallo chiaro della mia fedele stanza d’ospedale dove sono ricoverata

da giorni: non c’è nessun amico a incoraggiarmi, né un parente che possa circondarmi di

affetto. Non ci sei neppure tu ad abbracciarmi, a carezzarmi e a chiamarmi dolcemente

mamma.

In questa vuota e silenziosa solitudine penso a te, Proloy, continuamente, e ritrovo forza.

A poco a poco, mi sono abituata alla dolorosa idea di vivere separata da te, di consumare

il poco tempo che mi resta su un letto di ospedale senza poterti vedere e neppure sapere dove

ti trovi. Insieme al mio passato, alla malattia e alle cure inutili, ho dovuto accettare anche la

ben più amara consapevolezza che tu, il mio bambino, nella vita avrai un’infinità di famiglie

diverse, ma non una madre.

Ma la lontananza da te non è dipesa dalla mia volontà. Per questo ho deciso di lasciarti

queste mie memorie: perché, quando io non ci sarò più e sarai più grande, tu possa ricordarti

di me e sapere che sei stato la cosa più importante nella mia vita, la ragione della mia

esistenza in questo mondo. Tu, Proloy, hai ispirato ogni mio gesto, ogni mia parola, ogni mia

decisione. Ho lottato sempre, ogni istante, per te, e ho sacrificato tutto perché tu fossi felice.

Tu di certo non rammenti il giorno in cui il mio destino fu segnato per sempre,

decretando la nostra separazione: avevi solo quattro anni.

A quell’epoca trascorrevamo le notti in stazione, sulla panchina che ci fungeva da letto.

Io vegliavo il tuo sonno inquieto senza riuscire a dormire, ma non per la durezza del giaciglio

improvvisato: era l’angoscia a divorarmi. Da giorni, disperata, tentavo invano di chiedere

aiuto alle famiglie di nostri connazionali implorando una stanza e qualcosa da mangiare per

te, che piangevi per la fame.

«In cambio cucinerò io per tutti» promettevo ogni volta. Ma le mie suppliche non

servivano a nulla. Anzi, quelli che mi rispondevano andavano ripetendo fino allo sfinimento

che se mi trovavo in quella situazione la colpa era solo mia, e mi chiudevano la porta in faccia

intimandomi di stare alla larga da loro e dalle loro famiglie per non rischiare di far diventare

anche le loro figlie e le loro mogli delle depravate come me.

Tormentata dall’ansia, fissando il buio sopra di me nell’attesa che arrivasse l’alba, una

notte rividi a una a una tutte le vicissitudini degli ultimi anni, fino alla prima volta in cui fui

pestata a sangue e violentata da tuo padre. Eppure, in qualche modo, il tormento notturno mi

giovò, perché mi diede un’idea: mi fece ricordare che in quel primo episodio di grave

 

Foto di Thamina Yhasmin.

Eros Rovoletto per LiveMedia24

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